venerdì 11 giugno 2010

fuochi d'artificio

Un colpo fortissimo, come di cannonata, la fece trasalire. Aveva appena chiuso il frigorifero per riporre la bottiglia iniziata di vino bianco, il suo preferito, ma quella botta le sembrava un po’ esagerata per uno sportello che si chiude. Subito dopo una serie di colpi, uno dietro l’altro.
“Ah! Si, i fuochi d’artificio! Caspiterina, me lo sono dimenticato!”
Prese con sé la borsa che conteneva tutto quello che si può immaginare possa servire in caso di attacco nucleare, era glaciale, e qualsivoglia altra catastrofe climatica, e corse trafelata verso la porta.
“I fuochi d’artificio! Devo sbrigarmi!” ripeteva a se stessa frettolosamente, mentre cercava di evitare che il vestito si incastrasse nella catena della bicicletta. Amava guardarli, come in un rituale, sempre stando seduta nello stesso posto. Aveva addirittura attribuito un nome a ciascuno di essi, come fossero animati, viventi, individui. Ognuno aveva un posto nella sua classifica di gradimento, proprio come si fa con gli elenchi di cibi, di canzoni o colori preferiti …. Insomma era un gioco che amava fare con se stessa e con chi voleva seguirla nella magia di un cielo che si colorava di esplosioni.
Raggiunse la spiaggia. Posizionò il suo pareo blu, ricordo di un viaggio in paesi esotici donatole da un’amica, sulla sabbia, e cominciò a sognare.
I fuochi d’artificio esplodevano nella volta celeste e lei seguiva con l’indice della mano destra le forme che il fumo residuo, modificato di continuo dal vento leggero, abbozzava in cielo. Scopriva ora un drago, ora un albero, ora un elefante. Le piaceva confrontarsi con chi le era accanto sull’eventualità di definire, quello che via via la nebbia disegnava in aria, drago o coccodrillo, gatto o leone.
Una volta terminati i fuochi, la consuetudine voleva che si fermasse a gustare una granita alla menta, prima di riprendere il cammino verso casa.
Il cielo conservava il colore chiaro del fumo e l’odore acre di bruciato ancora per qualche ora.
Ma il suo cuore era triste, perché un altro anno doveva passare prima che potesse vederne altri.
Il chiarore dalla luna illuminava la piccola strada bianca e la guidò fino a casa, come una lanterna sospesa nel cielo, tenuta da una mano invisibile sopra il suo capo. Una specie di portafortuna, una specie di spirito guida che la affiancava lungo il suo cammino.
Rincasò serena. Il leggero bagliore della luna illuminava le piantine di basilico sul davanzale della cucina. Il gatto sonnecchiava sullo zerbino della porta sul retro. Appena la vide arrivare si stiracchiò, sollevando e inarcando al schiena, come solo i felini sanno fare, mostrando tutta la sua natura selvaggia, di cacciatore notturno. Oddio, proprio cacciatore no, ma insomma questo è ciò che vorrebbe la consuetudine…Gli occhi dell’animale si mostravano due piccoli catarifrangenti che catturavano la luce, per restituirla con leggero sgomento a chi li guardava.
La stanchezza era tale che neanche un vero drago dagli occhi infuocati avrebbe potuto impedirle di raggiungere il letto, senza quasi neanche togliere quel velo di trucco che era solita usare quando usciva.
Prese la bottiglia dell’acqua fresca. Un bicchiere, quello alto e abbastanza largo da contenere tanta acqua, tanta quanta le serviva a dissetarla. E dritta tra le braccia di Morfeo, fino al mattino successivo.
La mattina seguente, una lieve brezza spostava le tende leggere e trasparenti, creando panneggi e drappi degni di un affresco rinascimentale. La finestra socchiusa lasciava passare l’aria fresca del mattino, carica di rugiada e di odore di pulito.
Aprì gli occhi ancora pieni di sonno. Di quel sonno ristoratore che le aveva dato pace almeno per le ore della notte che era riuscita a strappare alle “cose da fare”. Cose di cui le sue giornate erano troppo piene, negli ultimi mesi.
La caffettiera, pronta dalla sera prima sul fornello, attendeva soltanto di essere accesa. Decise che avrebbe potuto attendere ancora un pochino. L’occhio che riusciva a tenere aperto guardò la sveglia e vide che si potevano rubare ancora cinque minuti, prima che il tardi si trasformasse in tardissimo. Accese un bastoncino di incenso che teneva nel cassetto del comodino. Per ogni evenienza preferiva averne una buona scorta un po’ ovunque, in ogni stanza della casa. Quello alla cannella era il suo preferito. Sapore esotico e di sogni piccanti, gusto dolce e delicato che la portava sempre in luoghi diversi, ogni volta che lo faceva ardere. Paesi immaginari, posti nuovi da sognare ad occhi aperti, fatti di natura incontaminata e gente umile.
Chiuse ancora un istante gli occhi lasciando che l’immaginazione e il sogno si ingarbugliassero in un gioco che bizzarramente la confondeva. Confondeva le sue idee e i suoi desideri al punto che in verità non riusciva a capire cosa fosse il sogno, cosa la realtà e ancora cosa fosse il desiderio.
In preda a questi contrastanti e talvolta antitetici pensieri decise di alzarsi e mettersi in moto.
Doveva assolutamente iniziare la nuova giornata con il massimo delle energie per affrontare tutta quella massa di lavoro che ogni giorno doveva sostenere, con il sorriso e la forza che si richiede a un atleta nel momento culminate della gara, a una ballerina nel punto cruciale dell’esibizione. Stringere i denti, sorridere e far credere che la fatica non esista.
Bene! Il caffè era stato versato nella tazzina e stava sciogliendo, con il suo calore, il cucchiaino di miele che usava per addolcirlo. Una spruzzata di latte freddo completò la sua colazione.
Aprì distrattamente la rivista che stava sul tavolo e, ancora con gli occhi assonnati, pensò che quel quadro, con i suoi colori preferiti, sarebbe potuto stare bene sopra il suo letto. Considerò che con un po’ di fortuna avrebbe trovato il tempo per ricopiarlo. Conservava da qualche parte in soffitta le tele e i vecchi colori ad olio del nonno.
Se solo il tempo avesse giocato un pochino a suo favore, dandole giornate di venticinque o ventisei ore….Ah! Quante cose avrebbe potuto fare!
Era un po’ stufa di dover sempre e soltanto lavorare, senza mai avere il tempo da dedicare ai suoi hobby o alle sue passioni.
Sembrava che il mondo le sfuggisse di mano appena provava a prenderlo. Le aspettative erano sempre alte, oppure semplicemente si trattava di non essere in grado di capire e di saper scegliere? Era lei che non capiva oppure gli altri a fraintendere? Da qualche parte risiedeva il segreto di queste sue grandi difficoltà. Ma evidentemente non era il momento perché si potessero trovare delle risposte. Non adesso, almeno.
E così, terminato il suo caffè, chiuse il giornale e aprì la porta di casa. Alla ricerca del gatto, che solitamente avrebbe già dovuto essere lì, ai suoi piedi a chiedere una carezza con le fusa e un biscotto ai cereali. Come tutte le mattine. Infatti eccolo sullo zerbino.
“Ma che razza di animale sei? Me lo spieghi? Sempre a oziare! Sembri proprio Garfield, di nome e di fatto!”
E proprio quello era il suo nome: Garfield era stato un regalo della signora Bianca, che si era trovata, dalla sera alla mattina, con una cucciolata di gattini da accudire, senza saper chi ringraziare.
Qualcuno aveva depositato sul suo poggiolo un cesto con cinque micini di pochi giorni. E la signora Bianca, amante forse più degli animali che dei cristiani, iniziò la sua giornata cercando di sfamare quelle creature pulciose e miagolanti.Poi, appena furono sufficientemente cresciuti, decise di distribuire equamente tra conoscenti e vicini i piccoli gatti. Tre maschi e due femminIl gatto che scelse di vivere con Alice era rosso striato, cicciotello e sonnecchiante.
Era stato lui a sceglierla.
Non era stata una scelta di Alice, che invece avrebbe optato per la femmina rossa bianca e nera, che si dice sia un animale fortunato e portafortuna.
Il gattino rosso, appena Alice entrò in casa e si avvicinò al cesto, alzò la testa e si diresse, in cerca di tenerezze, prepotentemente verso la sua mano, che invece cercava di accarezzare la gattina tricolore.
Il fatto fu prontamente notato dalla signora Bianca, che sentenziò “Eccolo! Sarà lui il tuo nuovo amico! Un bellissimo gatto rosso! Un po’ pigro e addormentato, ma sicuramente non si può far finta di nulla di fronte alla scelta che ha fatto: vedi? Lui ha scelto te, e tu non puoi rifiutarlo…”E così Alice tornò a casa con quel fagottino rosso, imprevisto, ma bellissimo e tenero.
Lei aveva pensato a una femmina, un po’ per caso e un po’ perché da piccola aveva una gatta che le era rimasta sempre nel cuore, da quando soprattutto le fu portata via da una bambina che se ne era invaghita.
Era la nipotina di un’amica della nonna, un po’ più grande e scaltra di lei. Il giorno in cui tornò nella sua città di origine, alla fine delle vacanze, portò con sé Sissi all’insaputa di tutti, perfino dei suoi genitori, nascondendola tra le borse in macchina. E da quel momento, della gatta non si seppe più nulla, né della bimba, che non tornò mai più in vacanza da quelle parti.
Certo, la convivenza con una gatta sarebbe stata difficile…ma aveva già preso accordi con il veterinario per sterilizzarla. Non si poteva correre il rischio di riempire il vicinato di gatti.E invece non era più necessario. Il gatto era un maschio ed era proprio un Garfield. Un gattone peloso e sornione. Proprio come il personaggio di animazione dell’omonima serie…. Per questo anche il nome che gli attribuì faceva parte di quella catena di accadimenti fortunosi e fortuiti legati alla vicenda di questo animale.
Tutto accade seguendo un disegno ben chiaro. Spesso siamo noi a non avere la chiave di lettura per gli avvenimenti che si presentano ai nostri occhi. Non significa tuttavia che il disegno non esista.
E dunque, dopo la solita paternale al gatto che la snobbava deliberatamente nonostante il suo indice puntato verso di lui e il tono della voce decisamente importante, rientrò in casa a preparargli una scodella di latte. “Unico vizio che ti concedo ancora! E presto dovrò toglierti anche questo….” strillava tutte le mattine, più per abitudine che per concreta volontà, versando il latte per il suo cucciolo.
Garfield si stirava, sollevava le zampe posteriori, prima una e poi l’altra, e con tanta, tanta tranquillità, si avvicinava alla scodella rossa che ogni giorno lappava con immenso piacere.
Alice spostò il cuscino della sedia su cui poggiava il ginocchio mentre versava il latte. Sentiva qualcosa che le dava fastidio, come uno spessore. Trovò un braccialetto d’argento. Proprio quello. La targhetta portava le due lettere, le sue. Quelle che fece incidere quel giorno di qualche anno prima, quando pensava che la sua vita fosse giunta a una svolta. Era solo un po’ più consumato e meno lucido. Portava anche esso i segni del tempo. Gli stessi graffi che avevano lasciato profonde cicatrici sul suo cuore. Tutte cose che appartenevano al suo passato: non sufficientemente remoto per essere dimenticato, ma abbastanza lontano da quella che era diventata ora la sua vita. Un passato fatto di altro, fatto di un’altra se stessa. Quella che ora aveva solo voglia di scordare.
Prese il braccialetto e lo infilò in un cassetto. Soprattutto in un cassetto della memoria che doveva essere chiuso già da un po’, ma che ogni tanto qualche evento casuale riapriva con suo grande dispiacere. Si riapriva, e con esso si riaprivano le ferite, i ricordi, le domande rimaste in sospeso, le risposte attese, le sue lacrime versate invano, il ricordo di quell’ultima volta. Quell’ultimo momento in cui incontrò il suo sguardo. La aveva salutata con un “ Chiamami quando sei arrivata” voltandole le spalle.
-Per non vedermi andare via- pensò lei. Probabilmente lo pensò proprio solamente lei.
I disegni macchinosi di Andrea erano differenti.
Senza aggiungere altro, dopo queste parole lui scomparve nel vuoto. Velocemente dalla scena. Troppo lentamente dai suoi sensi.
Ma ora era solo un ricordo.
E quando pensava a lui riusciva anche a sorridere, cercando di ricordare solo i momenti felici ed omettendo quelli, sicuramente maggiori in numero, meno belli. Il tempo cura le ferite, sostiene nelle difficoltà, aiuta a capire.
Non a caso aveva optato per cambiare aria, casa, città, amici…….tutto!
Quel giorno in cui decise che era giunto quel vento capace di sollevarla e trasportarla con se, aprì il giornale e lesse che era in vendita un piccolo albergo con meravigliosa vista mare.
“Lì sarà il mio futuro. Lì sarà la mia casa. Quella diventerà la mia sfida!”
Prese quella corriera, con il suo abito leggero, che profumava di estate, e la sua pesante valigia. Era un giorno di autunno, ma ancora portava l’eco dell’estate.

(29.09.2007)

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