sabato 5 giugno 2010

LA CASA SULLA SCOGLIERA


Quella mattina l’aria bucava la pelle del viso, nonostante la primavera fosse già iniziata da due settimane. Pungeva come tanti sottilissimi aghi che entrano sotto la pelle. La piccola tortura era stranamente piacevole, pensava, mentre allungava il passo concedendosi un pensiero fuori del comune. Attraversava la piazza ascoltando il rumore dei suoi passi sul ciottolato. Silenzio tutto attorno. Il sole cominciava a fare capolino da dietro gli alti palazzi che delimitavano verso est il sagrato rettangolare. Il marmo della fontana, sempre rotta, sembrava muoversi al variare delle ombre del giorno appena nato. Il volto del Nettuno la squadrava dall’alto della sua scultorea esistenza, sul piazzale spopolato di quella mattina di aprile. A lato, un po’ più in la, un buffo omino guardava verso il cielo in cerca di chissà cosa. Presumibilmente ambiva a rintracciare la sua stessa presenza ammaccata da un bicchiere di troppo già di buon mattino. Considerò che non se ne poteva occupare. Non lo aveva mai fatto, del resto, ma questa volta un leggero pensiero l’aveva sfiorata, benché avesse deciso di non andare oltre la semplice osservazione. Insomma proseguì, dritta per la sua strada, senza curarsi del gattino che, salito sulla magnolia sembrava incapace di scendere, e miagolava cercando aiuto. Nessun fatto o pensiero poteva distoglierla dal suo obbiettivo. Mai come ora sentiva forte e chiaro quale era la meta verso cui spingere la prua. La cadenza dei suoi passi l’aiutava a concentrarsi. Ad ogni passo aumentava la sua consapevolezza. Ogni metro che mancava alla fine del suo percorso accresceva la determinazione della sua scelta. Giunse nel suo ufficio. La scrivania gonfia di cartacce, documenti, lettere ancora senza risposta. Spostò lo sguardo verso la finestra, attirata dal leggero chiarore che la attraversava. Si avvicinò e scorse, giù in cortile, una bicicletta. Era bella, come quella che la nonna le aveva concesso di usare durante i suoi brevi soggiorni in campagna, prima delle vacanze estive. Nera, con il manubrio grande, le leve dei freni leggermente sproporzionate, i raggi decorati da gomma azzurro pallido. Non l’aveva mai vista prima d’ora, in quel posto, appoggiata al muro e legata con un vistoso lucchetto. Le tornò alla memoria quella volta in cui, nonostante le raccomandazioni della nonna, decise insieme a Loredana, la bambina con cui passava i pomeriggi nel paesino di campagna, di caricarla sul portapacchi e partire per una piccola avventura. La stradina di terra bianca e sassolini, si perdeva nella pianura senza che l’occhio percepisse, in prospettiva, dove portava. Il rumore delle ruote leggermente sgonfie, su quella strada tra i campi, l’avrebbe accompagnata per il resto della sua vita. Era sordo e leggero, unico. Se lo senti una volta non puoi dimenticarlo. I sassolini scappavano a lato facendo passare le ruote della bici, quasi rispondendo alla necessità di non farsi schiacciare.
Corsero spensierate, lei e Loredana, lungo la strada sterrata, tutto il pomeriggio. Ma sulla strada del ritorno la ruota si bucò senza che le due bimbe se ne accorgessero. Quando rincasò appoggiò la bicicletta, come sempre, dentro la cantina, e corse a prepararsi per la cena. Il mattino successivo, al risveglio, la nonna la accolse con una paternale che non dimenticò per mesi. Ancora adesso, che di anni ne erano passati un bel po’, non appena vedeva una bicicletta nera le risuonava nelle orecchie la lavata di capo che le toccò sorbirsi quel caldo mattino di giugno. Il cerchio si era completamente deformato sotto il peso delle due bambine, poiché la ruota si era sgonfiata del tutto.
In un attimo i suoi pensieri furono interrotti da qualcuno che bussava alla porta. “Avanti!”, non aveva appuntamenti in agenda, ma attese un istante che la porta si aprisse e lo vide. Era un ragazzo dall’aspetto curato, ben vestito, alto e robusto, ma non gonfiato. Dal suo abbigliamento sembrava appena uscito da un negozio di grandi firme. Il pantalone perfettamente stirato, la camicia bianca e la giacca blu, sembrava cucitagli addosso. Accidenti, che bel vedere di prima mattina! Pensò che le cose che aveva in sospeso potevano attendere almeno il tempo di ascoltare cosa volesse da lei il nuovo arrivato . Timidamente abbassò gli occhiali da sole neri che gli coprivano lo sguardo. Un paio di occhi verdi spuntarono da dietro la montatura e illuminarono il suo volto abbronzato. L’eccezionalità della visita la colse impreparata. Avrebbe desiderato farsi trovare un po’ più in ordine. Il trucco appena accennato, i capelli raccolti in un nastrino rosso da liceale, e gli abiti stropicciati non le rendevano merito. Avrebbe potuto essere un po’ più carina, pensò nel breve istante che intercorse tra l’ingresso dell’uomo e le sue considerazioni.
“Cosa posso fare per lei?” disse, pentendosene subito dopo. Non le era mai piaciuto quel modo di dire, apparentemente educato ma in sostanza servile ed estraneo.
“Lei è la signorina Cecilia?” disse il giovane con un accento indefinibile e senza alcuna cadenza che rendesse possibile capirne la provenienza. Era ovvio che non era di quelle parti. Non si era mai visto uno così, tanto meno nel suo piccolo ufficio immobiliare.
“Certo, piacere, Cecilia Siri” rispose sorridendo e porgendo la sua piccola mano all’uomo, che non esitò un sorriso.
“Il piacere è mio. Pietro. Pietro Magri.” Fu la risposta al suo sorriso e alla sua mano tesa. “Ecco, mi hanno consigliato di rivolgermi a lei per un appartamento. Cerco una casa per l’estate.” Disse lui accennando una smorfia che lasciava sperare una risposta a suo favore.
Del resto era il suo lavoro, un’agente immobiliare un po’ per caso e un po’per fortuna, ma pur sempre un’agente immobiliare. Cos’altro avrebbe potuto chiederle una persona nel suo ufficio?
“Bene” rispose dopo un attimo di esitazione in cui aveva sperato che la domanda potesse essere un’altra.
“Mi dica con precisione quali sono le sue esigenze e vediamo di trovare quello che fa al caso suo. E’ fortunato, la stagione non è ancora iniziata e troverà un’ampia gamma di scelta”.
Il ragazzo, deciso ed educato sorrise e iniziò a parlare, rivelando una serie di richieste per nulla sciocche ma al contempo bizzarre.
“Cerco una casa che possa diventare la mia dimora per l’estate, con un piccolo giardino, una veranda sul retro, un grande albero verso ovest, delle bellissime ortensie fiorite….” fece una pausa che gli consentì di leggere nello sguardo di Cecilia sorpresa e stupore.
La descrizione ricalcava fedelmente la casa sulla scogliera che per anni era rimasta vuota perché troppo lontana dal centro abitato e con un difficile accesso al mare.
Cecilia sorrise e replicò all’istante “Ho quello che fa per lei, se desidera possiamo vederla subito!”.
“Ma che ne dice se ci diamo del tu? Queste formalità del ‘Lei’ lasciamole a quelli di città…che ne dice?” disse subito dopo, per cercare un’intimità con quel giovane che le sembrava conoscere da sempre. Forse il sorriso, forse la camminata, sicura ma scanzonata, in lui c’era qualcosa di familiare. Mentre cercava nel cassetto pieno di scartoffie le fotografie e le planimetrie della casa sulla scogliera, sentì lo sguardo di lui dolcemente appoggiato sul suo ‘retro’, e francamente la cosa non le dispiacque. Del resto, la sua vita da single, per scelta o per necessità, poteva anche finire. Nulla è mai da considerarsi definitivo. Tutto si muove, si evolve, cambia e offre nuove prospettive ogni volta che lo si desidera vedere cambiare.
Trovò finalmente quello che cercava e appoggiò sulla scrivania, ancora ingombra di scartoffie, tutta la documentazione.
Lui dette una rapida occhiata a quanto gli mostrò e accettò di vedere la casa, direttamente, dal vivo.
“Quello che cerco è una sensazione. Un ricordo mi ha portato qui e sicuramente da qualche parte troverò quello che inseguo. Si tratta di un’impressione, un’idea che ancora non è chiara” disse quasi tra se e se mentre Roberta infilava il giubbino, pronta per uscire.
Lei lo invitò a salire sulla sua macchina, parcheggiata come sempre sotto l’ombra del grande olivo, dietro le scuole, e si avviarono verso la casa sulla scogliera.
L’aria fresca e penetrante del mattino aveva lasciato spazio a un più caldo sole che, se decide di essere cocente, ci riesce benissimo anche in aprile.
I finestrini aperti facevano entrare l’aria fresca della mezza mattina e si riconosceva appena il profumo del ginepro e del rosmarino selvatico, mescolato a quello del mare che, con le sue alte onde, sopraggiungeva in grandi quantità nebulizzandosi in piccolissime particelle, quasi invisibili. In controluce però, un occhio attento avrebbe sicuramente visto l’arcobaleno nell’infinito numero di goccioline che si spandevano nell’aria, sopra la costa, per alcuni metri.
Così, in questo “scenario da brughiera” come amava definirlo lei, trascorsero i quindici minuti che separavano l’abitato dalla casa sulla scogliera. Era per lei un apparato scenico naturale, che nessuno scenografo, benché dotato della più fervida fantasia, sarebbe stato in grado di ricostruire. Niente di più bello ed emozionante, nulla di più interessante esisteva nel raggio di chilometri, a suo parere. I colori della natura, attraverso l’effetto polarizzante delle lenti dei suoi occhiali, assumevano sfumature meravigliose e lei amava contare quante potessero essere le infinite tonalità del verde delle piante, del blu del cielo e l’iride delle fioriture spontanee.
“Hai visto che bella quella barca?” disse il giovane indicando con l’indice, in lontananza, una barca a vela che beccheggiava in mezzo alle onde. Era un bell’esemplare di sei metri, bianca, con i profili blu. Calypso era il suo nome. Scritto a caratteri corsivi, con una leggera inclinazione a destra. Proseguiva la sua rotta verso il piccolo porto probabilmente in cerca di un riparo dal vento che cominciava ad increspare il mare, più di quanto ci si aspettasse. Spesso capita che in questa periodo arrivino improvvise mareggiate, retaggio dell’inverno che pare non voglia mollare del tutto e lasciare finalmente spazio alla bella stagione. E allora succede che i velisti intrepidi siano costretti a riparare in porti di fortuna o insenature riparate lungo le rotte che stanno seguendo.
“Vieni, la casa è proprio qui” disse Cecilia a Pietro, ancora seduto sul sedile della macchina intento di raccattare le mille scartoffie della donna, che con i finestrini aperti avevano iniziato a sparpagliarsi ovunque sui sedili e per terra, nell’auto.
Al richiamo della donna, scese e chiuse la portiera semplicemente accostandola, senza farla sbattere. Cecilia interpretò quel gesto come un segno di rispetto nei confronti della natura circostante, dove regnava assoluto il silenzio, rotto solamente dal fruscio delle fronde al passare di qualche piccolo animale, e dallo schianto delle onde che si rompevano sugli scogli.
La raggiunse, mentre lei si trovava nel giardino. Eufemismo ormai chiamarlo tale. Ma un tempo lo era, sicuramente, vista la simmetria del disegno delle aiuole, ormai divenute incolti cespugli di rovi e ortiche. C’era un grande albero, proprio a ovest, come lui aveva chiesto all’inizio. Era un leccio. Immenso, bellissimo, carico di foglie e di piccolissime ghiande. Quelle cadute a terra si erano seccate e sembravano tanti piccoli e scuri sassolini di forma regolare. Era posto al centro del giardino, e ai suoi lati un tempo doveva esserci lo spazio per un tavolo che sicuramente aveva ospitato qualche signora, vestita di chiaro, che nelle torride giornate estive, con le amiche, beveva una bibita alla sua magnifica e fresca ombra. Sembrava di sentire le loro parole. Nel silenzio di quel giardino, il lieve fruscio delle foglie mosse dal vento somigliava ai sommessi discorsi delle signore che si scambiavano opinioni e confidenze circa le ultime novità che dettava la moda o sul romanzo di appendice appena letto.
Insomma ecco cosa intendeva Pietro, quando parlava di sensazioni. Suggestioni capaci di evocare alla mente cose del passato, cose accadute in tempi lontani e in luoghi sconosciuti, ma pur sempre vicine. Vicine al cuore per affinità. Vicine all’anima per relazione intima con il senso delle cose che in esse sono contenute o che da esse scaturiscono.
Non si può spiegare razionalmente quello che accade in questi casi. La suggestione, la sensazione è data dalla storia che ogni giorno scriviamo sulle pagine del libro della vita. E capita che a volte la penna con la quale si scrivono possa essere cancellata, ma spesso accade invece che l’inchiostro sia indelebile. Allora si fissano alcuni punti nella mente. I punti dai quali parte ogni nuova esperienza, ma punti ai quali ogni volta si deve ritornare. Le partenze alle quali inesorabilmente si è costretti a tornare. Punti fissi dello spazio e del tempo, dai quali si dipanano le nostre vite.
E così trascorsero del tempo in silenzio. Ognuno osservando quello che la mente e il cuore voleva vedere. Ognuno con lo sguardo apparentemente volto a qualcosa di particolare, ma in realtà perso nei propri pensieri, nelle inquietudini, nei piccoli tormenti e ansie della vita.
Il silenzio trasmetteva qualcosa tra loro, tra quelle due persone sconosciute, che per un caso avevano incrociato le loro strade in quella mattina di primavera.
Si guardarono e sorrisero. I loro sorrisi dicevano molto. Dichiaravano molto più delle parole non pronunciate per paura di rompere l’incantesimo del silenzio. Il silenzio, un grande uccello che copriva con le sue lunghe ali la loro presenza in quel luogo.
Il maestrale iniziava a soffiare sempre più deciso. Quante volte cambia il tempo in questa stagione di passaggio! L’aria pungente al mattino, il caldo cocente nelle ore successive e ora anche il vento freddo….
“Accipicchia! Sta volando tutto qui….mi sa che è meglio se entriamo in casa…” disse Cecilia sentendo un brivido, appena il sole fu coperto da una grossa nuvola e il vento salì dalla scogliera infilandosi nel giardino, passando attraverso la siepe di oleandri, sotto il grande albero, e arrivando infine alla sua schiena, sotto il giubbino.
Si erano trattenuti tutto quel tempo in giardino, senza quasi neanche pensare a visitare l’interno della casa.
Il grande porticato, con le travi a vista, tinte di bianco e i leggeri pilastri ai lati, si estendeva per tutto il lato verso il giardino e anche per una piccola porzione dalla parte del mare. Sapienti disegnatori prima, e bravi costruttori poi, lo avevano messo in opera proprio nella posizione più adatta. Esposto a sud est, riceveva il sole per tutto il giorno. I legni erano un po’ malconci. “Bisognosi di manutenzione!” disse Pietro, appoggiando la mano su un pilastro piuttosto malandato, ma che portava con orgoglio il peso de suoi anni.
“Eh, si! Direi proprio di si. Ma senti che bella sensazione tattile che dà il legno consumato dal sole e dal vento! Sembra uno di quei tronchi levigati dal mare, e portato durante l’inverno sulla spiaggia. Non ti pare? Io adoro queste percezioni del tatto. Per esempio non posso resistere, davanti a un quadro a olio. Devo per forza metterci un dito e sentire lo spessore della pennellata…. Non capita anche a te?”
La guardò con un misto di stupore e di piacere. Nel sentire le sue parole gli tornò alla mente quella volta in cui stava per allungare il dito verso un quadro in un museo, e lo sguardo severo del guardiano lo fece desistere ancor prima di concretizzare l’idea con il gesto.
“Anche io amo sentire la forma del pennello nel solco lasciato sulla tela, nello spessore della tempera, e immaginare, ad occhi chiusi, le dita che lo impugnavano… Il peso che il pittore ha dato alla sua mano per creare quella sensazione e rendere intenzionale il suo gesto, sicuro del risultato che voleva ottenere. Oppure l’incertezza nei tratti leggeri, ripetuti, curati…Anche da questi particolari si sente lo stato d’animo dell’artista nel particolare momento in cui ha appoggiato il suo strumento sulla tela vergine.”.
Lo ascoltava, rapita e al contempo sicura di conoscere in anticipo quello che stava dicendo, ancor prima che lo esprimesse. Come se le parole di Pietro fossero le sue stesse parole. Come se fossero già scritte e lette da qualche parte.
“Affinità elettive!” esclamò Cecilia appena lui finì il suo discorso.
“Come, scusa??” la interruppe lui. “Scusa, mi sono perso un attimo. Mi stavi dicendo qualcosa?” proseguì trasalendo dai suoi pensieri espressi ad alta voce sulla pittura e sui quadri.
“No, niente, anche io mi sono persa un attimo… Ma scusa, non sarebbe meglio se proseguissimo nella visita alla casa? Dai, su, entriamo!”
Faticarono non poco a far girare la chiave nella serratura ossidata dal salmastro e dal tempo. L’ottone della toppa aveva assunto il colore bruno, tipico del metallo esposto al sole e al salino. La chiave lavorava male, ma alla fine, dopo alcuni tentativi, riuscirono ad aprire.
Quello che si presentò ai loro occhi era la tipica immagine di una casa disabitata, ma non da lungo tempo. I mobili, tutti, erano coperti da teli chiari. I lampadari avvolti con vecchie pezze di flanella. Sembrava di sentire la voce della signora che chiedeva alla servitù di usare cura nel coprire il vecchio comò di famiglia “…perché la polvere non entri tra le modanature e le fessure…”.
Le raccomandazioni erano state attese con dedizione. Non un filo di polvere era passata attraverso quelle vecchie lenzuola appoggiate sul comò. Appena Cecilia sollevò un lembo, apparve un meraviglioso cassettone intarsiato e decorato, ancora pulito e lucido. Quasi si sentiva l’odore della cera stesa per proteggerlo.
Era bellissimo! L’interno di quella casa era veramente degno di una leggenda. Come se all’improvviso dovessero entrare i personaggi di “Via col vento” e iniziare recitare il loro copione, illuminati dai fari di esperti tecnici della luce.
E loro rimasero in silenzio, ancora una volta, in attesa che qualcosa accadesse. Entrambi vivevano l’attesa e l’aspettativa di un evento.
Improvvisamente lo sguardo di Cecila fu attratto da una grande libreria che prendeva tutta la parete di fronte a quella rivolta al mare, dotata di grandi e luminose portefinestre che si aprivano sul terrazzo. La luce del sole colpiva radente la gigantesca libreria, disegnando su di essa sfumature e colori caldi, come caldo era l’ambiente nel suo insieme nonostante fosse disabitato da molti anni. Conservava ancora, come detto, la familiarità di un luogo vissuto e vivente. Sembrava di sentire ancora le voci, i rumori, i suoni, gli odori, le sensazioni che appartenevano a quell’ambiente decine di anni prima.
Eppure erano li, a distanza di mesi, di anni, decine di anni, soli, loro due. Nel silenzio che si lasciava percorrere dal sibilo del vento, e nel sole che penetrava con timidi raggi attraverso le persiane bianche, scaldando la stanza nella quale si trovavano e illuminando i loro volti di una luce calda, morbida. Stavano lì, persi l’uno negli occhi dell’altra. Smarriti l’una nella parole dell’altro, con il desiderio, l’unico, di fermare il tempo in quel preciso istante. Nel momento in cui le loro mani si sfiorarono per ritrarsi immediatamente, come intimorite, come attraversate da una scarica elettrica.
Lei fece un passo verso la grande libreria di ebano, scurissima benché illuminata dal sole arancione. Fu attratta da un libro che era stato riposto male, capovolto, con le pagine in vista e la costola della copertina celata, in mezzo agli altri libri. Lo guardò e fece una smorfia che eloquentemente esprimeva la sua curiosità e insieme il suo disappunto. Tese la mano verso la libreria e cercò di aprire l’anta vetrata del bellissimo mobile. Le sue dita cercavano di raggiungere quel libro. Lo afferrò con sicurezza, lo estrasse dal ripiano e, presolo tra le mani aperte, lo aprì a pagina venticinque. Lesse prima tra sé e sé e poi ad alta voce, con un sottile fil di voce, quasi un soffio, appena percettibile.
…..“Quella mattina l’aria bucava la pelle del viso, nonostante la primavera fosse già iniziata da due settimane. Pungeva come tanti sottilissimi aghi che entrano sotto la pelle. La piccola tortura era stranamente piacevole, pensava mentre allungava il passo concedendosi un pensiero fuori del comune.”
Improvvisamente un fastidioso e insopportabile rumore, come di un campanello assordante che suona e che non smette, ma anzi, aumenta di volume, intensità e fastidio, la distoglie dalla lettura appena iniziata.
Poi il silenzio.
Ricomincia a leggere, con la voce rotta dal singhiozzo di un pianto appena incominciato.
“Attraversava la piazza ascoltando il rumore dei suoi passi sul ciottolato. Silenzio tutto attorno. Il sole cominciava a fare capolino da dietro gli alti palazzi che delimitavano verso est il sagrato rettangolare. Il marmo della fontana, sempre rotta, sembrava muoversi al variare delle ombre del giorno appena nato.”.
Si volta a cercare lo sguardo rassicurante di Pietro. Non c’è più.
“Pietro… Pietro, dove sei?” silenzio nella stanza.
Un raggio di sole illumina un comodino.
Lo sguardo di Cecilia si scontra con una debole luce verde .
Mette meglio a fuoco.
Si tratta di una serie di numeri.
Sette, tre, cinque.
E ancora quel rumore assordante.
Un incubo, un terribile sogno, il peggiore dei risvegli.
Un enorme senso di soffocamento.
Un colpo di tosse sorda.
Il profumo del caffè.
Gli occhi spalancati fissano un imprecisato punto nel soffitto della stanza, ancora buia.
Il cuore batte all’impazzata.
“Pietro, Pietro, Pietro…..”
(2.08.2007)

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