mercoledì 29 settembre 2010

Il sentiero di luce (10 1 2008)


In quella strada percorsa per la prima volta in quel gelido pomeriggio di fine anno, ogni singola pietra parlava. Si sentiva, sotto i piedi, la voce del suo racconto. Un sottile mormorio, fatto non di parole ma di sensazioni, che arrivano dritte al cuore senza che il cervello abbia il tempo di filtrarle. Sentivo, camminando per quello che in realtà era poco più di un sentiero, il rumore dei miei passi che accompagnavano il flusso dei miei pensieri. Il mio lento incedere aumentava la consapevolezza e il desiderio di fermarmi.
Mi occorreva prendere tempo. Il tempo, sempre lui, quello che corre e che sfugge, ora era lì.
Sotto i miei piedi. E mi si offriva innanzi, come su un vassoio argentato pronto per il cenone che di lì a poco avrei consumato con l’allegra compagnia dei miei compagni di viaggio.
Lo sguardo, in lontananza, si posa sulle ali di quegli uccelli acquatici dal nome sconosciuto, ma dalla grazia che solo gli animali a volte riescono ad indossare, coi loro semplici e sempre uguali movimenti. Ripetizioni che danno al puro gesto del planare sull’acqua la sembianza di una danza.
Silenzio tutto intorno. Aria freddissima che penetra ovunque, che ghiaccia il mio corpo. Brividi lungo la schiena e sul petto, sulle braccia e dappertutto.
Eppure è qui che vorrei strare. Vorrei vedere andar via l’ultimo traghetto e sapere di rimanere sola. Sola con me stessa, con imiei pensieri, con la mia voglia di annotare, e il mio desiderio di raccontare. Ancora una volta un’isola.
Strano, ma forse nemmeno più di tanto.
L’isolamento che nasce dentro è lo stesso che ritrovo fuori.
L’Isola ti isola.
Dal resto del mondo, e spesso anche da te stessa. Benché a separarti da tutto sia soltanto un tratto di acqua percorribile in dieci rapidissimi minuti. Eppure quei dieci minuti diventano infiniti, quando arriva la sera.
Se scende il gelo e il silenzio avvolge la terra e l’acqua intorno ad essa. Non si muove più nulla. L’ultimo traghetto ha lasciato il molo e sta raggiungendo la riva opposta, a nord.
Si vede un tramonto meraviglioso. Le cortaderie si preparano per un ritratto. Disposte ordinatamente, in un mazzo che sembra casuale ma che consente al sole di passarvi attraverso, con i suoi raggi rossi radenti. Faccio una foto. La mia piccola macchina fotografica comincia a dare segni di cedimento. La batteria si scarica di continuo, e devo dosare gli scatti per evitare di dover rinunciare a immortalare qualcosa che potrà arrivare magari tra poco, a causa di un eccessivo utilizzo adesso.
Cammino e respiro. Annuso con piacere il profumo della legna bruciata. Il camino dell’ultima casa è acceso. Fuma da giorni, ininterrottamente. Sa di buono. Sa di olivo. Le pendici esposte a nord, meno scoscese e più dolci di quelle a sud, da secoli sono coltivate a oliveto. La legna delle potature annuali, insieme con altra, presa qua e là da alcune piante di roverella, aiuta, nelle freddissime e lunghe giornate invernali, ad alzare la temperatura e portare il giusto tepore nelle case dei pochi abitanti.
Il rosso della fiamma colora il volto delle donne che, tuttora, producono manufatti con la precisione e l’attenzione di sempre, per il piccolo mercato estivo.
Il lungo inverno, con le poche ore di luce, difende ancora questa meravigliosa consuetudine. E quando le mani, stanche, si rifiutano di lavorare, un libro prende il posto dell’uncinetto o dell’ago. Gli occhi finiscono di indebolirsi alla luce scarlatta del focolare, per tenere dietro alle avventure di eroine di romanzi classici, senza tempo. Quante di loro sognarono di essere una di quelle fanciulle, amanti non corrisposte, promesse spose senza amore da un padre autoritario, ribelli giovinette senza arte ma con uno spiccato senso di libertà e di avventura.
Poi chiudono il libro, si è fatto tardi. Meglio andare a dormire, ché domani c’è da lavorare sodo.
Mi sembra di vederle, una ad una, coprire i tizzoni con la cenere e preparasi per andare a letto.
Ascolto il rumore del motoscafo che si allontana. Lo vedo, laggiù. Diventa sempre più piccolo, ma riconosco, a bordo, la presenza di almeno tre persone. Qualche ritardatario che ha perso l’ultima corsa del traghetto oppure qualcuno che ha deciso di andare a trascorrere S. Silvestro in un qualunque ristorante in paese.
Non ho voglia di andare al cenone, in quel ristorante dal nome che vorrebbe dimostrare più di quello che in realtà è.
Mi fermo qui. Inventerò una scusa. Mi sento poco bene e chiedo ospitalità. Certo, non è carino nei loro confronti. Siamo qui per passare il 31 dicembre insieme, e io….li mollo così! Ma si, in fondo cosa cambia? Con o senza di me sarà sempre la notte di S. Silvestro! Percorro l’unica strada, correndo sul lastricato di cotto consumato dalle ruote dei carretti, unico mezzo di trasporto ammesso sulle strette mulattiere che attraversano da parte a parte il piccolo abitato.
Sento la circolazione che si attiva. Il cuore che pompa e la testa che esplode! Ma sono felice. Mi fermo!
La mia valigia immaginaria contiene tutto il necessario per la mia permanenza sull’isola per un paio di mesi.
Apro con le chiavi la casa che ho deciso di occupare e la fantasia percorre con le dita il muro accanto alla porta, alla ricerca dell’interruttore. Si accende un lampadario a quattro bracci, di ferro battuto, illuminato da sette lampadine. Una è spenta, forse bruciata.
Il tavolo, dei primi del Novecento, di provenienza contadina, è adornato con un centrino lavorato all’uncinetto. Si intravedono le scale che portano al piano superiore.
La legna è accanto al caminetto. Attende una fiamma che la faccia rivivere. Una fiamma che brucia e purifica, che accende e ravviva.
La fiamma che scalda, che scioglie il freddo. Dentro e fuori.
Le tende a righe chiare sono aperte con cura alle estremità delle finestre, come a voler far passare la luce del sole, che ormai non c’è più.
L’ oscurità è affascinante perché nelle ombre tutto si stempera. L’asprezza dei contorni è addolcita. Il tono dei colori è diluito, tra la penombra e l’immaginazione. Tutto procura metaforiche illusioni. Quelle falsità che la mente crea e distrugge. Nel batter d’un ciglio. Nel soffio di un respiro.
Le chimere dell’immaginazione e del desiderio.
Salgo la scala di pietra serena. Mi sostengo al corrimano di legno e con un leggero timore mi affaccio al piano superiore.
Due camere e un bagno.
Appoggio il mio irreale bagaglio e tasto il letto. Materasso abbastanza morbido e rete sfondata. Da manuale!
Scendo quasi di corsa al piano inferiore, come a voler dare rilievo alla padronanza col luogo appena incontrato, ma da sempre conosciuto nella fantasia del mio sogno.
Prendo alcuni piccoli legni e mi appresto ad accendere il fuoco. Faccio fatica perché non ho con me la mia fantastica Diavolina, ma alla fine riesco nella mia opera. Lo diceva sempre mia nonna “se non sai accendere il fuoco, non sai fare soldi…”. Modestamente il fuoco riesco sempre a farlo partire. E’ con i soldi che evidentemente non ho ancora capito come si fa…
Prendo le due mele che ho nello zaino e me le sbuccio. Cena da re! Per il mio ultimo giorno dell’anno e per la mia prima notte sull’isola scelgo di essere felice con niente! Segno una fine e marchio un inizio. Da qui in poi.
La batteria del notebook è ancora carica, fortunatamente, perché non resisto all’idea di iniziare a scrivere e contemporaneamente scarico le foto appena scattate. Il tramonto sul lago assomiglia paurosamente a quello sul mare. Chi lo a avrebbe mai pensato…. Anzi… Io, non ci avevo proprio mai pensato! La distesa d’acqua si tinge di rosso, il cielo assume le tonalità dell’arancio e del giallo e il sole si infuoca, in lontananza, evidenziando il contorno del promontorio che si mette in mezzo, tra la linea dell’orizzonte e il punto di vista. Tutto è così familiare. Tutto è così intimamente mio… Appoggio la schiena alla sedia impagliata sulla quale siedo e sollevo le gambe sul tavolo. I piedi cominciano a scaldarsi. Le scarpe, leggermente sporche di fango, in terra, e le dita dei piedi che si muovono, come tentacoli di polpo che si allungano sullo scoglio per salire rapidamente fuori dell’acqua in cerca di cibo.
“Ah! Meravigliosa sensazione di solitudine!”
Nel silenzio delle buia stradina e delle case disabitate, la finestra esposta a sud lascia passare il gelido vento di tramontana. Sento il suo fiato sul collo, che mi gira intorno e mi avvolge come le spire di un freddo rettile, e sibila.
Chiudo il computer e salgo in camera.
Sul letto una meravigliosa coperta bianca damascata, che prima non avevo notato, mi accoglie col suo appannato e attempato aspetto rassicurante. Le cose semplici di una volta. La coperta un po’ consunta riporta al profumo di sapone di Marsiglia. Al bianco che più bianco non si può. Al sole di primavera nei campi dorati di grano. Alla casa della nonna, con le enormi finestre a lato del letto che si affacciavano sull’aia, dove in tempi passati veniva steso il riso, prima di essere trattato per essere poi stivato nei silos.
La finestra si trova sulla parete opposta al letto. E si affaccia su una corte interna. La luce della luna lascia intravedere un carretto di legno e qualche vecchio arnese di ferro. Forme indistinte. Domani, con la luce del giorno sarà più facile capire di cosa si tratta. Adesso sento solo il bisogno di sdraiarmi. La coperta gelata non invita di certo a un buon riposo, ma sono tranquilla che di lì a poco non la sentirò più. Mi sdraio e mi infilo, vestita, sotto le lenzuola.
Guardo il soffitto, nella notte scura, alla ricerca di qualche ombra o qualche riverbero che mi aiuti a percepire lo spazio, le distanze, le profondità. Ma non scorgo nulla adatto allo scopo. Mi giro sul fianco e pensando alla notte che sta salutando il vecchio anno, perdo il sentiero della veglia e imbocco la via del sonno.
Apro gli occhi e sento le campane. Uno, due, tre, quattro rintocchi.
Mi guardo intorno. Il sole è alto e splendente. Non è possibile che siano le quattro. Qualcosa non funziona.
“Ah, ma che stupida! Ho contato quattro rintocchi, ma gli altri deve averli fatti mentre ancora dormivo…”
Prendo dal comodino l’orologio che mi ero tolta la sera precedente. “Sono le dieci! Mannaggia, quanto ho dormito!!!!”
Il sole entra dalla finestra e attraversa la stanza disegnando una strada immaginaria di luce che si disegna sul pavimento e raggiunge la parete opposta della stanza. La osservo e mi rendo conto che non c’è pulviscolo sollevato nell’aria, a far brillare di mille stelle la scia di luce. Come se non ci fosse polvere. Quella luce è solo luce.
E questo è il mio segno.
Quel segno era un segno per me.
“Luce che cade dagli occhi, sui tramonti della mia terra…..”
Era mattina e il sole splendeva.
Dovevo affrettarmi per scoprire quello che la notte precedente si celava dietro un’ombra informe e un velo di nebbia e di mistero.
Ora il sole si preparava ad illuminare il mio cammino. E io mi sentivo pronta.
Finalmente pronta a spiccare il mio volo!



10/01/2008 23:39:47
Bellissimo, Kitti! Un veleggiare leggero, sospesi a mezzo tra sogno e osservazione della realtà ... invero un modo di osservare che rende vive e reali le cose fisiche. Grazie, Kitti. Ci hai fatto viaggiare un po' con te, prestandoci gli occhi, la mente, i sentimenti... mi hai fatto tornare a certe sere invernali in cui uscivo a buio nei vicoli silenziosi di Marciana...
Klondike Man11/01/2008 09:39:58

Senza parole..ma non servono..ascolto in religioso silenzio e come una sirena mi trasporti in questo luogo magico!Grazie per avermi fatto vivere uno delle piu' belle notti di S. Silvestro.
lupakiotto18/01/2008 22:52:36

brrrr ... che sensazioni forti , non ti spaventa la solitudine vero ? Per fortuna che è arrivato il sole il giorno dopo...
Massimo

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